De gustibus non est disputandum.

Conosciamo questo mantra molto bene e tante volte ha posto il sigillo di pace su inestricabili diatribe. Sui gusti non si può discutere, ce lo hanno insegnato i grandi classici a suo tempo e noi, ancora oggi, approfittiamo della locuzione latina quando non troviamo risposte soddisfacenti alle scelte più diverse.

È davvero sempre e solo questione di gusti?

Questo è solo la prima delle domande che possiamo porci oggi, di fronte alle informazioni che i dati e le statistiche ci possono dare.

Ehi un momento. Quali dati?

Cuffie, meglio senza fili. La mia playlist. La mia musica.
Siamo sicuri che sia davvero “tua”?
Come fa un gruppo musicale oggi a diventare un’icona internazionale?
Si può essere parte di un genere o essere un genere a parte, la musica non cambia.
E qui non è più solo questione di gusti.

Tutta un’altra musica

Una celebre app svedese che offre lo streaming on demand di una selezione di brani di varie case discografiche ed etichette indipendenti ci pone di fronte all’analisi di oltre 20 mila canzoni rock, composte dall’alba degli Anni ’60 a oggi. I parametri dell’algoritmo proprietario della App sono 8, tra cui: Energia, Acusticità, Ballabilità, Valenza, Suono dal vivo, Parlato e Carattere Strumentale, e le variabili di Forza e Allegria e vedono piazzarsi i Maneskin come detentori assoluti del titolo di Re italiani della festa e pur presentandosi in piattaforma con sole 54 tracce, trovano la loro via del rock, mentre i Pink Floyd presidiano a gran voce l’area delle band più malinconiche.

Com’è finita lì la rock band romana?

Correva l’anno 2014, Spotify – sì, parliamo proprio di lei – si dota di un algoritmo proprietario, acquisito dopo l’acquisto della startup Echo Nest. Si cambia musica, o meglio modello. Dal “magazzino” musicale, in cui gli utenti album, canzoni specifiche e, solo in seconda battuta, si creano migliaia di playlist, all’oggetto “playlist” che diviene protagonista. Se una volta, il primo obiettivo di un brano era quello di entrare nella programmazione di una data emittente radiofonica, oggi entrare a far parte di precise playlist è un elemento di primaria importanza, per quello stesso brano e quindi autore/cantante.

Ok, la playlist.
Ne ho una per il lavoro, una per quando è un giorno no e una per la serata da cui lasciarsi stupire. Ma non le costruisco io?

Quando pensiamo alle App di musica più o meno celebri, pensiamo a piattaforme che usano algoritmi per selezionare musica sulla base dei nostri gusti. Vero, in parte. Quindi, se qualcuno altro da te, che stai leggendo queste righe e hai protetto la tua login con la password di Excalibur, dovesse scegliere qualche sua canzone da uno di questi grandi magazzini digitali del suono, niente panico: il tuo algoritmo non è definitivamente compromesso.

Le playlist, che comunemente fruiamo sulle nostre piattaforme musicali preferite, sono sia automatizzate, sia generate manualmente da team editoriali, ovvero, sono il prodotto di una combinazione di editoriale e algoritmica. In questo scenario, la fruizione della musica un’attività sempre più strutturata, finalizzata all’acquisizione di dati che, di rimando, sono necessari all’esistenza economica delle piattaforme stesse.

Questo significativo cambio di rotta è evidente anche nella UI delle interfacce delle piattaforme: il design dell’interfaccia, di fatto, favorisce ampiamente la visibilità di contenuti curati algoritmicamente ed editorialmente rispetto alla ricerca autonoma. I curatori musicali – per gli amici platform gatekeepers – sono tra coloro che decidono quali gruppi musicali entreranno nelle loro playlist, dando il “la” a quel processo di affermazione della #NuovaMusicaNonAncoraPopolareMaCheLoDiventaPresto”, sono coloro che lavorano per decidere, filtrare e selezionare cosa esporre agli ascoltatori e verso quali canzoni incanalare la loro attenzione.

Lo avresti mai detto? La tua playlist è “Algo-toriale” (ma non si mangia!)

Quindi, come ha rivelato uno dei redattori di contenuti di una delle più celebri piattaforme, “abbiamo tre diversi tipi di playlist: abbiamo playlist curate al 100% a mano, playlist algotorial e poi abbiamo playlist completamente basate su algoritmi”.

Insomma, la playlist è algo-toriale cioè è prodotto ibrido di scelte editoriali e algoritmiche, in cui l’intelligenza artificiale che governa gli algoritmi non sostituisce, né è separata dal lavoro dei curatori umani, ma in esso e con esso lavora a braccetto.

Ok, lo sappiamo. Abbiamo rischiato grosso a parlare di musica, per cui ci scusiamo con i puristi dell’argomento, segnalando due link utili di approfondimento:

  1. Articolo completo di analisi dei dati delle rock band su Spotify, qui.
  2. La classifica delle Best rock bands of all times, sulla rivista americana Parade